Un tempo viveva in
uno stagno una rana. Si annoiava a morte, perché nessuno voleva
avere a che fare con lei. Questa rana, infatti, era molto vanitosa,
altezzosa (si sentiva superiore a tutte le altre regine dello stagno)
e usava spesso il pronome “IO”. Sì, in maiuscolo, perché nella
sua prosodica, quando lo usava, il pronome di prima persona singolare si alzava
di tre tonalità rispetto alle altre parole.
E le sue
compagnucce, com'è logico, si annoiavano a morte. “IO qui! IO
là!”, tutto il giorno.
Per sovrammercato la
rana vanitosa presentava ogni sua impresa banalissima come un'azione
straordinaria: aveva mangiato una mosca? Diceva alle sue compagne:
“Uh, che avventura! Un mostro con cento occhi si è avvicinato e IO
l'ho sconfitto! Sol IO! IO ne ho fatto un sol boccone! No, in realtà,
era talmente grande che IO ne ho fatti mille di bocconi!”.
Le povere rane che
stavano ad ascoltarla si guardavano perplesse e poi se ne andavano
gracidando: “ Che gra! Che gra! Che gra! Che gra...nde stronza!”
La rana si accorse
che così non funzionava: la sua solitudine aumentava e si rodeva per
trovare una soluzione.
Poiché era una rana
vanitosa, ma anche abbastanza astuta, cambiò allora strategia:
avvicinava le sue compagnucce di stagno e sussurrava: “Vedi quella
libellula? Vedi come vola felice e contenta per lo stagno, mentre voi
vi inzaccherate tra fango e acqua? Io me la mangerei in un boccone,
ma vola troppo alta, quella maledetta! Lo sapete che mangia anche lei
insetti, quella cannibale? Vi priva del vostro cibo! Non solo: quella
malvagia succhiainsetti a tradimento può volare di stagno in stagno!
Dovete sapere che passa l'estate in bellissime pozze d'acqua
limpidissima e si sgranocchia piano piano mosche, moscerini e,
inorridite!, girini!...”
Le rane dello stagno
che mangiavano abitualmente in abbondanza non avrebbero dato ascolto
a quelle parole, ma quell'anno c'era siccità e avrebbero dovuto
stringere un po' la cintura.
Le parole della rana
vanitosa fecero breccia.
Qualcuna gridò
indignata: “Maledette libellule!”, altre: “Cannibali!”, altre
ancora: “Libruttole, altro che Libellule!”
Finito il periodo di
magra, le ranocchie, un po' ingrassate, non invidiavano più la
leggera libellula che raramente volava alla portata della loro
lingua. Mica era scema! Circolava voce, inoltre, che avesse non solo
una vita difficile, ma anche breve.
La rana vanitosa
l'anno successivo continuò imperterrita: “La libellula mangia
molto e si nutre delle vostre mosche!” .
Vide che quelle
parole ormai annoiavano il pubblico delle sue amiche ranocchie che,
appena si accorgevano che attaccava con quel discorso, dicevano:
“Ehm, scusa, abbiamo altro da fare! Abbiamo l'acqua sul fuoco e
dobbiamo buttare i ravioli “Rana” nella pentola! Ci vediamo!”
La povera rana
vanitosa, rimasta di nuovo sola, capì che doveva trovare altro, un
nuovo argomento per suscitare l'invidia e la paura delle sue
consorelle. Le richiamò dopo pranzo: “Uh, guardate la biscia
d'acqua! Non solo mangia insetti, ma attenta alla vostra vita!”:
l'argomento serpentino ebbe un breve successo in quell'estate, perché
una biscia aveva veramente mangiato una ranocchia!
L'abitudine di
ingigantire con la lente di ingrandimento della vanità ogni fatto
fece sì che la rana vanitosa moltiplicasse per dieci il proprio
racconto : “So per certo che nello stagno vicino, un'altra biscia
d'acqua ha mangiato dieci povere raganelle! Speriamo che non venga
nel nostro stagno, altrimenti....”
La paura incominiò
a diffondersi nello stagno, ma poiché non poteva insistere con le
bisce assassine a lungo dovette passare ad altri abitanti dello
stagno di anno in anno: il rospo, la tartaruga, la salamandra.
Venne il giorno che
i nemici delle rane erano diventati troppo numerosi e che il clima di
incertezza fosse sempre presente, ma non portasse a nulla. A dir la
verità qualcosa la rana vanitosa aveva ottenuto: come le pecore si
addossano alle piante che hanno ampie fronde per proteggersi dal
calore del solleone, così le rane vivevano sempre vicino le une alle
altre, pronte all'attacco dei nemici che popolavano le loro menti e
un poco di compagnia facevano alla rana vanitosa che, è vero,
ampliava le loro paure, ma le conteneva nel contempo col suo IO
imperioso che rassicurava le animule tremebonde delle gracili
ranocchiette.
Un giorno, però,
capitò un fatto strano: la rana vanitosa, vagando per lo stagno di
vedetta alla ricerca di qualche libellula o rospo o biscia da
cacciare dal territorio, si imbattè in un oggetto misterioso: si
trattava di uno specchio lasciato cadere da qualche umano.
La rana vanitosa si
avvicinò a quella superficie misteriosa e vide se stessa riflessa.
Dopo un primo
momento di sconcerto, dapprima decise di gonfiare un poco la propria
pelle per incutere timore all'intrusa. La rana vanitosa vide con
stupore che la sua avversaria aveva fatto lo stesso. “Che
sfrontata!” , pensò e , con maggior impegno, gonfiò ancora la sua
pelle.
Gonfia, gonfia, effettivamente ora sembrava un enorme rospo e si compiacque del suo
aspetto maestoso. Poiché non era per nulla stupida, pensò: “Se IO
ingrandirò il mio corpo a dismisura tutte le rane dello stagno mi
nomineranno loro Regina senza bisogno di elezioni! E di una sola cosa
dovranno avere paura: di me! E non esiste Regina senza uno stuolo di
Dame di compagnia! IO non sarò mai più sola perché tutti mi
dovranno riverire e onorare; inoltre, non sarò più costretta ogni
anno a inventarmi un nuovo nemico...”
Si diresse gonfia
all'inverosimile dalle compagnucce dello stagno, convinta di
sorprenderle e di lasciarle a bocca aperta.
Con gran sorpresa
non la salutarono e non la riverirono.
La rana vanitosa non
poteva parlare perché se avesse proferito verbo si sarebbe sgonfiata
velocemente come un palloncino della fiera ripieno di elio destinato
a perdersi tra le nuvole.
Un silenzio
minaccioso e ostile calò nello stagno, finché un grido di battaglia
si levò: “Dagli al rospo! Dagli al rospo!”. E con le canne
aguzze le placide ranocchiette dello Stagno, addestrate dalla paura
all'uso delle armi, accecate dalla loro stessa violenza e dal sangue,
infilzarono la povera rana vanitosa che se ne rimase lì, trapassata
in più punti da parte a parte come uno spiedino. Non volò via come
si sarebbe potuto immaginare, ma si dice che dalle bolle schiumose
delle ferite, spirante dai fori di entrata e di uscita, si sentisse
il fiato dell'ultimo respiro moltiplicato per cento.
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